Poco prima delle festività natalizie, si è molto parlato della classifica delle città “più meglio” e “più peggio” d’Italia. Naturalmente, e ironicamente, la mia città di provenienza è agli ultimi posti, mentre la mia città di residenza è in pole position. Certo, come s’è osservato in un pezzo che ha riscosso assai condivisioni, per vivere così bene a Milano servono tipo 6mila euro al mese, soglia al di sotto della quale sei solo uno dei tanti che ci prova, a fatica, ammantando la sua poraccitudine di vestiti vintage e slang urbano, nel tentativo — mai riuscito fino in fondo — di integrarsi in una splendida metropoli di provincia.
Milano discrimina, certo, in determinate situazioni. È una lezione che impari in fretta, appena ci arrivi, con le tue borse della Guess e i tuoi capelli crespi da vera, autentica, irriducibile terrons. È una città che ti obbliga a dare di più per ottenere di più, sottrae e aggiunge, trasforma, riempie e svuota. Inoltre, Milano è una città maledettamente costosa, al punto che quando viaggi e vai in altre città maledettamente costose (tipo New York o Tokyo), non hai ragione di scompensarti più di tanto: in fondo è come Milano. Verrebbe da chiedersi perché così tante persone ci si trasferiscano e perché così tante persone ci restino. “Il lavoro” è la risposta generalmente più diffusa. A Milano veniamo tutti per la stessa ragione, si sa, mica per il clima. Ma magari c’è dell’altro.
C’è che chiunque venga a Milano, lo fa per disputare una partita con se stesso e con le proprie ambizioni. C’è che, mentre impara a conoscere e capire la città, s’abitua a vivere in un posto in cui i mezzi pubblici funzionano; e la sharing economy pure perché ci si muove agilmente in macchina senza possederne una; e se vuoi ti portano la spesa a casa, e gli ordini di Amazon ti arrivano dopo 3 ore; e poi la sanità è migliore che altrove; e in effetti è figo assaggiare le cucine etniche di mezzo mondo; e, pensa, i servizi funzionano; questo per non parlare della pluralità infinita di eventi, attività, manifestazioni, concerti, occasioni attorno alle quali far coagulare i propri interessi. Quando arrivi a Milano ti abitui all’efficienza, la stessa che criticavi “perché qui sono tutti esaltati e workaholic”. Scopri che quell’attenzione per i dettagli, l’estetica e le tendenze, è seduttiva, ti convince, ti corrompe, perché è bello entrare in un locale — uno qualunque— e trovarlo ben arredato; perché hai la sensazione di essere in un avamposto, un luogo in cui la storia corre più veloce che altrove (o, perlomeno, meno in ritardo che nel resto d’Italia). Succede che a Milano hai la possibilità di relazionarti con persone molto diverse tra loro che, spesso, sono assai interessanti. Insomma, Milano non è un posto perfetto, ma non fa così schifo, credetemi. Viverci costa tanto, semplicemente, perché Milano offre tanto. End of story. Per tutto il resto, citofonate alle aziende che sottopagano i dipendenti.
Se proprio devo trovare qualcosa di negativo in questa città, per quel che mi riguarda, non è l’assenza del mare (comunque imperdonabile), o del verde (a volerne usufruire, si trova), o delle montagne (che comunque sono molto vicine). Non è la nebbia (che c’è pure in Puglia, che ci crediate o no). Non penso, in altri termini, che il vulnus reale della questione sia nella Retribuzione Annua Lorda, o nel costo della vita (quanto è figo offrire da bere agli amici giù?). L’aspetto realmente critico di questa città è che la maggior parte di chi ci si trasferisce, lo fa da solo. Se è fortunato, ritrova brandelli sparsi del suo gruppo di amici, qualche compagno d’università, conoscenze di vecchia data. L’unica cosa che a Milano non abbiamo e che è molto difficile costruire (per circostanze storiche e fattori ambientali), l’unica vera assenza che patiamo, è la famiglia, intesa sia nel senso letterale, sia nella sua declinazione più ampia e includente, nella quale possiamo inserire tutte le persone alle quali siamo legati da un affetto autentico, solido, sigillato dalle nostre storie personali.
Lo so, lo so. Sembro una reazionaria borbonica conservatrice. Lo so, la famiglia è un fardello dal quale emanciparsi, d’accordo. Ma la verità è anche che la famiglia, intesa come l’insieme di legami nati presto e durati a lungo, è un tessuto sociale ed emotivo di cui abbiamo bisogno. Non so quando ci siamo persuasi di poterne fare deliberatamente a meno. Non so quando l’individualismo rampante ci ha talmente sodomizzato le meningi da farci pensare che non fosse un tema, che non ne avessimo bisogno, che potessimo farcela da soli, che non ci sarebbero serviti i nonni e gli zii, che avremmo potuto accudire i nostri vecchi a distanza, che la resa dei conti di quella diaspora esistenziale non sarebbe mai giunta.
Ora, se c’è una paura che accomuna tutti gli esseri umani è quella dell’abbandono, il timore di crepare soli divorati dai gatti (o dalle tarme, per chi non ha voluto agevolarsi neppure della compagnia di un pet). Il limite più grande di Milano, semmai, è la sua solitudine autarchica, che patiamo ma che ricerchiamo, perché abbiamo imparato a chiamarla indipendenza, autonomia, libertà. Il limite più grande di Milano è la liquidità assoluta di qualsiasi legame, le sue amicizie scintillanti opportunamente a scadenza, la vicinanza farlocca che ci illudiamo di costruire con persone sempre più abituate a essere sole, a pensare per sé, a sovrapporsi e anteporsi, a lustrarsi l’immagine e a coltivare frustrazioni assolutamente private, occulte, dissimulate.
Sia chiaro, però: non intendo sminuire le conoscenze milanesi, gli amici, i colleghi, il prezioso network di contatti giusti con i quali dilettarci in gustosi aperitivi. Intendo dire che a Milano siamo soli. Non tutti. Non sempre. Ma molta gente è molto sola. Alcuni sono soli in due, ma il ragionamento non cambia. E non importa quante cene, quante gite, quanti pranzi e quante feste tu possa avere in agenda. Quando ti viene la gastroenterite e vomiti pure l’anima, sei solo. Quando spendi 80 euro a seduta per parlare con una persona che di mestiere ascolta le paturnie altrui, sei solo. Con un professionista, ma solo.
A Milano puoi avere tutto l’aiuto che vuoi, a pagamento. Di qualunque cosa tu abbia bisogno, la trovi. Lavori, guadagni, paghi, pretendi, realizzi progetti, magari fai pure i soldi, ti iscrivi in palestra, dimagrisci, ti metti l’apparecchio ai denti. Però, a volte, ciononostante, sei solo come uno stronzo. Convinci tutti, meno che te stesso, del tuo successo, però alla fine della festa piangi, perché sai che di tutti quegli invitati, molti sono solo comparse, ruoli secondari, dilettanti. Ecco, vedete, io non penso che le famiglie siano la cura a tutti i mali. Anzi, potremmo dire che le famiglie sono l’origine di molti mali, la radice di tanti dei nostri irrisolti. Ciò detto, però, esse sono umane e ci assicurano la nostra quota — indispensabile — di umanità. Di fallibilità. Di imperfezione. Ci ricordano che i legami non sono tutti perfettamente recidibili e che a definirci, come persone, è anche l’amore che diamo, a chi lo diamo e in che modo. Lo scambio reciproco di cure. L’andirivieni di fiducia e rispetto che alimenta i rapporti sani (tutti, quelli sentimentali, quelli amicali, quelli familiari).
Ci ho pensato mentre tornavo a Milano, dopo le feste di Natale. Mi sentivo fratturata a metà. Da un lato non vedevo l’ora di riapprodare a casa, di dormire nel mio letto, di lavarmi nella mia doccia. Di ripristinare la mia personale routine minimale, fatta di minuscole liturgie quotidiane. D’altro canto, però, a questo giro più che mai (e ho il sospetto che sia sempre peggio) mi è pesato lasciare ogni singola persona che ho rivisto nei miei giorni in Puglia. Mia madre, con il suo corpo fragile e il suo animo titanico. Mio padre, così silente ma così attento. Mio zio, che ancora gli brillano gli occhi quando parla di Formula 1 e Alfa Romeo. Mia zia, che ho coccolato come non mai, facendo le fusa manco fossi un gatto. I miei cugini maggiori che vorrei vedere tutte le settimane, alla domenica, come quando eravamo ragazzini e che, invece, ormai vedo un paio di volte all’anno. Il mio migliore amico, da cui sono andata a cena, suo fratello, sua cognata, i suoi nipoti, suo padre che mi chiede sempre come va a Milano e sua madre che, da vent’anni, ogni volta che mi vede mi dice quanto sono dimagrita o quanto sono ingrassata (e, da vent’anni, spera che il suo meraviglioso figlio omosessuale cambi idea e si fidanzi con me). L’adorabile amica che non vedevo da quasi un anno, con cui sono rimasta a parlare fino alle 5 del mattino (non dei nostri fidanzati ma di politica).
A questo giro più che mai m’è pesato salutare ogni componente di quella famiglia allargata, le amicizie che non conoscono coercizione, ricatto e senso di colpa, il piacere puntualmente ritrovato di stare insieme, parlando a metà tra il dialetto e l’italiano, giocando a carte, mangiando un dolce. Osservando come siamo cambiati, cresciuti, invecchiati, stempiati, aggrinziti, ma ancora capaci di volerci bene davvero.
Ho varcato la soglia della mia vita milanese senza esaltazione e senza rimpianto. Vivo dove ho scelto di vivere, lo so. Ho superato l’ipocrisia del “tornerei indietro se potessi ma però…”. Io, per ora, vivo qui. Ma se mi chiedete la vita che vorrei, vi rispondo che vorrei una comune, un kibbutz, un collettivo di genitori, zii, cugini, fratelli, nipoti, bambini, amici lontani. Vi rispondo che vorrei raccoglierli tutti insieme, non dico nella stessa casa, nello stesso quartiere o nella stessa città. Forse mi accontenterei anche nella stessa regione. Vorrei che potessimo crescere, maturare, invecchiare, stando vicini. Vorrei che potessimo aiutarci reciprocamente, ciascuno secondo le proprie capacità e competenze (chi cucina, chi ripara l’impianto elettrico, chi si occupa della burocrazia, chi aiuta i bambini a studiare, chi risolve i problemi tecnologici, chi cucina, chi lava i piatti, chi ascolta gli altri), ricordando come sia vivere in un sistema basato sull’amore, con tutte le complicazioni che esso comporta. Vorrei che ciascuno conservasse la propria autonomia, ma che affrontasse la vita sapendo che gli altri ci sono. Che sono un gruppo. Una famiglia. Un clan. Con delle regole sciocche, forse; con una gerarchia discutibile, magari; con condizionamenti, limiti e responsabilità, certo. Tutte fregature che l’amore e la convivenza ci impongono, ma è bene saperlo presto. Una famiglia presente, nella teoria e nella pratica. Non a trecento, seicento, mille chilometri di distanza. Non su FaceTime. Non su whatsapp.
E invece, inesorabilmente, ci siamo divisi tutti da capo. Ognuno con la sua vita in un luogo diverso. Puglia. Lombardia. Abruzzo. Veneto. Toscana. L’unica cosa che posso dirmi, alla fine, e me la dico, perché è vera, è che devo sentirmi fortunata ad avere così tante persone a cui voglio bene. E pure, diciamolo, così tante che ne vogliono a me.
Il fatto che siano dislocate alla dog’s dick, è solo un “di cui”.
Diciamo così. Raccontiamocela e andiamo avanti.
Molto bello questo tuo (o suo se preferisce) articolo. Dissacrante e ironico, vero come ci si aspetta da una lucida visione priva di inganni e sotterfugi sentimentali. Menomale che la malinconia ci resta addosso, quando questa è intelligente sia chiaro. Complimenti!
Grazie mille e dammi pure del tu, che diamine! 🙂
Stella hai ragione su tante cose, approvo sempre tutto ciò che scrivi, essendo tarantina e scorpioncina come te. Però devo dirti che questa “amalgama di affetti” che trovi quando vieni giù è dovuta al fatto che tu vieni qui durante le ferie, che sia Natale, Pasqua o in estate, e che non è verosimile che tale vicinanza si possa replicare in altri periodi dell’anno. In altre parole, probabilmente vedi più te i parenti e gli amici rispetto a me che abito a Taranto da sempre; la quotidianità è logorante (non solo a Milano ma ovunque) e spesso non si ha il tempo neanche di prendere un caffè. Le amicizie diventano gioco forza i colleghi di lavoro, con cui condividi 9/10 ore al giorno, le sorelle sono un gruppo di whats app, i cugini persi nelle loro vite frenetiche. Per non parlare dei dissapori che esistono in tutte le famiglie. Ho amici carissimi di Milano, “condivisi” con un’amica di Taranto, quando vengono giù ci vediamo tutti insieme, ed è anche l’occasione per vedere l’amica della mia città, che durante l’anno non ho modo di frequentare (i figli di età diverse, il lavoro ad orari diversi, ecc): in altre parole, quando vedo la mia amica di Milano è anche l’occasione per vedere la mia amica concittadina (e abitiamo a meno di 500 metri). Per cui goditi le tue “trasferte a Taranto”, come un tesoro reso prezioso da questo tempo di “vacanza”, che sia un rifugio da portare su e che ti renda più sopportabile la solitudine che a volte provi lontano da loro. Ti abbraccio. Ale
carissima, immagino che sia anche come dici tu. so che le famiglie non sono fatte tutte di petali, e che la convivenza e la vicinanza possono essere logoranti (mentre la distanza a volte stempera le pressioni e consente di idealizzare un altrove affettivamente più completo). vero. giusto. e capisco anche che nel tran tran quotidiano i rapporti cambiano, seguano traiettorie diverse, anche quando a dividerci sono solo 500 metri. però quel conforto di sapere, per esempio, che anche per 1 o 2 pranzi al mese, ci si può riunire, alla domenica, passare qualche ora insieme, è una cosa che mi manca in questa vita così lontana che ho scelto. e credo mi mancherà sempre.
intanto sono tornata in Puglia e sono pure risalita a Milano. ho fatto scorta come sempre e procediamo per questo nuovo anno.
un abbraccio grande grande anche a te!
Ho fatto questi stessi ragionamenti qualche giorno fa nelle sei ore di viaggio che ci sono volute per tornare a Milano, ma la mia conclusione è stata leggermente diversa.
Il problema non è questa città e neanche trasferirsi da soli, il problema è andarsene oltre una certa distanza.
La famiglia più o meno allargata di cui parli, fatta di persone con cui sei cresciuta, di legami nati presto e proseguiti nel tempo, non te la puoi portare né a Milano, né ad Aosta e né a Palermo, e ti mancherà ovunque tu vada. Semmai l’esser proprio a Milano aiuta un po’ a ridurre le distanze se fai buon uso di Frecciarossa e Italo, e tutto quel che offre ti permette di andare avanti al meglio possibile.
Prima d’arrivare qui avevo fatto un colloquio in Svizzera per un posto da sogno negli uffici della stilografica con la stellina, m’avrebbero dato un sacco di soldi ma dopo due ore sono scappata a gambe levate perché lì si che sarei stata davvero sola.
Hugs ❤
Sì, vero, molto vero.
Non è un caso che, da ormai un decennio, io sia approdata molto lontano da casa, ma in una grande città. E la grande città, da un lato, offre infinite opportunità per riempirsi la vita, dall’altra impone l’apprendimento di una nuova socialità che non sempre e non per tutti è facile da accettare e da capire. E anche quando l’hai imparata, e anche quando ti destreggi bene al suo interno, resta quella distanza dagli affetti consolidati, lunghi una vita. Ma alla fine è così che va: non siamo i primi e non saremo gli ultimi. Ciò che possiamo fare è goderci le nostre scelte, impacchettare la malinconia e procedere, perché alla fine la vita procede in avanti e non a ritroso, che ci piaccia oppure no 🙂
baci! ❤
“Sono come il vento: a Roma amo Tivoli, a Tivoli Roma”.
La famiglia da cui veniamo, intesa e intensa nel suo senso ampio, è ciò di cui siamo fatti.
Poi c’è il resto: le scelte, il caso, i futuri possibili.
Siamo miscugli e abbiamo bisogno di desiderare e cercare avanti e indietro. E l’indietro, spesso è solo per i più fortunati e fa da sponda a cui ciclicamente tornare per darsi ancora la spinta in avanti.
sagge parole.
ma si sa che ne sai ❤
Milano è Bruxelles. Quanto mi ritrovo nelle tue parole, grazie Stella
grazie a te ❤
Io mi sentivo come te, quando a 24 anni sono andata da sola a vivere e lavorare all’estero. Londra è Milano, in grande. Dopo 10 anni son tonata “a casa”..lavoro a Milano ma ho deciso di non vicerci. E comunque non ci si sente mai veramente a casa in nessun posto dopo che si fanno certe esperienze e la vita specialmente degli altri, scorre. Mi piace come scrivi, continua così. 🙂
sai che anche io ho questo timore di fondo? che alla fine non ci si senta a casa mai davvero da nessuna parte, che quando sei andato e torni comunque le cose sono cambiate, le vite degli altri e pure la tua hanno fatto passi in avanti, indietro, di lato. sospetto che non riuscirò a riunire tutti i miei affetti in una comune, ma spero di poterli radunare, ogni volta che sarà possibile, attorno a un tavolo, a mangiare, parlare e bere caffé dopo la siesta postprandiale 🙂
Bellissimo pezzo, come sempre. Io queste cose per cui ti struggi ce le ho a Milano, dove sono nata. I legami e anche la solitudine. Ora vivo in Australia, figurati, Milano è diventato il mio paesello.
Ma infatti questi ragionamenti non è che valgano solo per Taranto e Milano, per il sud e per il nord. Valgono per qualsiasi centro e qualsiasi periferia. Per qualsiasi expat, piccolo o grande che sia! ❤
Condivido tutto. Ho 30 anni, in pieno sviluppo(!) e vivo ad Hong Kong già da due anni. Un po’ per scelta, un po’ per capriccio, per curiosità infinita nel sapere”cosa c’è di là” o forse per questo viziaccio che abbiamo di de-responsabilizzarci dal creare/mantenere il clan -comunità di cui parli. Una mia cugina si sposa e andrà a vivere nella campagna dei nostri nonni, dopo essere stata vicina vicina a suo padre in una brutta malattia, ed è sempre con mamma, fa le arancine con mamma, tutto. E con la zia (mia mamma) ed i cugini, il fidanzato da 10anni, lo stesso, e si amano. Le vacanze-di lui, lei non lavora- le passano a raccogliere carrubbe (il mese di agosto!!). Forse non sanno e non hanno visto niente della Milano tua. Vorrebbero, forse, ma a fine giornata si siedono in veranda e si godono il tramonto, lo stesso tramonto che vedono da quando sono piccoli, tutti i giorni con mamma e zii,non solo nel weekend! Potevo farlo pure io, pure tu, non ne abbiamo avuto il coraggio, coraggio di abbandonare tutta quella figaggine liquida di cui ci circondiamo, abbiamo preferito provare a “realizzarci” – e bere sprits e allargare le conoscenze-comparse per poi tornare a casa e raccontare le nostre riflessioni. Non dobbiamo raccontarcela, se vogliamo il clan, ma veramente, dobbiamo cambiare priorità. Io ancora non me la sento. Tu?
È molto giusto quel che dici e mi hai pure suscitato una sana invidia per tua cugina (anche io ne ho una che è rimasta giù e vive nello stesso residence in cui siamo cresciute, una casa come quella che avevano i miei, con giardino, balconi, tavernetta e finestre da cui, in lontananza, si vede il mare balneabile). Okay, vero. Siamo noi che siamo andate via e che abbiamo ordinato diversamente le nostre priorità. Il fatto, però, è che siamo in tanti. Forse per molti non era una vera possibilità, restare (perché c’è quel problema annoso del lavoro assente, che non è del tutto una leggenda). Voglio dire che il clan si scompagina, che viviamo sottoposti a un’accelerazione centripeta, che ci allontana invece di avvicinarci (tu lo sai bene, che scrivi da Hong Kong), e magari questa è una reazione a decenni (o forse secoli, o forse millenni) in cui i clan erano veramente opprimenti, troppo condizionanti e via discorrendo. Ma che ti devo dire. Sarebbe bello averlo. Non so se e quando me la sentirò, di creare una famiglia, ma unirsi a un compagno e fare un figlio, vivendo in una metropoli, se non ci sei nato, comunque non significa avere il tessuto sociale di cui sentiamo l’assenza (madonna che commento avvitato, spero di essermi spiegata :))
Però ti ringrazio per gli ottimi spunti ❤
Io mi trovo sempre bene qui a velletri, vita piena ed ambiente poco inquinato
avverto del sarcasmo, o sbaglio?
Sono genovese e per 6 anni ho studiato/lavorato fuori: Roma, Treviso, Milano e poi sono tornata a casa con un progetto tutto mio. Mi sentivo “scontornata” e spesso sola, nonostante abbia conosciuto moltissima gente stimolante. Ma chi mi ha vista fare domande sceme ai prof al liceo è in particolare una persona che è qui a Genova. Chi mi ha raccattata in fondo alla tristezza e all’insicurezza dei miei 16 anni è qui. Le radici, tutto ciò che esse significano, sono solo neo luogo di origine. Tutto il resto è razionale. Le amicizie che nascono dopo possono essere meravigliose certo, ma non hanno il sapore dei banchi di scuola né la puzza della palestra di quartiere. Capisco alla lettera questo articolo, però allora perchè non rifletti bene e non torni, magari creando tu un lavoro che ti piace e che possa funzionare nella tua realtà. Non si può vivere solo per il lavoro. Quando vorrai poi Milano è sempre lì.
uh che bella domanda. ci sono diverse risposte. la prima è che persino i miei genitori se ne sono andati dalla Puglia per stanziarsi in Abruzzo (e non ho neppure più una casa nella città in cui sono nata e cresciuta). La seconda è che i miei amici, quasi tutti, sono andati via a loro volta, pertanto quella bella sensazione che si prova a Natale o d’estate, non esiste nel resto dell’anno. In terzo luogo, c’è il lavoro che – come è noto – è più presente in certe aree geografiche che in altre (ragione per cui molti di noi vanno ben più lontano di Milano). Infine, mi sembra giusto citarlo comunque, da qualche tempo vivo una relazione con un uomo che vive e lavora a sua volta qui e che dubito potrebbe agilmente trasferire le sue competenze in Puglia.
Tu sei stata molto coraggiosa, perché hai scelto la cosa migliore per te.
Dal canto mio mi ripeto: mai dire mai, ma mi sembra così difficile pensare di ribaltare tutto, al di là della fantasia…
Per me che sono dello Stadera tutto quello che descrivi di Milano è piuttosto scontato. Quello che ti invidio è tutta la gioiosa banda di balordi che ritrovi a ogni discesa.
Perchè alla fine il calore di una bella famiglia conta moltissimo nell’economia di una vita.
Sono d’accordo (sulla famiglia intendo) e alla fine veramente devo essere contenta più che altro di avercela, e di ritrovarla, a ogni occasione utile.
E poi se riuscissi a vedere più spesso gli zii milanesi, sarebbe pure meglio ❤
Vale un po’ anche per noi “nordici”. Si va a Milano per lavoro, la sera si torna a casa al paesello dopo un viaggetto rilassante con trenord.
A Milano incontri di tutto, dai milanesi originari, agli acquisiti. Se va bene ti fermi per l’happy hour, così non fai tardi. E il mattino dopo si ripete.
Perdi un po’ di contatti a casa, perché chi lavora “al paesello” alle cinque e un quarto stacca. Tu arrivi alle otto se va bene. E ti sfottono perché sei quella che ha voluto far carriera, ma non ha il tempo di un caffè con le amiche.
Spesso trovi in treno con te chi fa quella vitaccia da pendolare, che come te semplicemente non ha voluto buttare alle ortiche la laurea e magari il dottorato di ricerca.
E poi quando sei a casa, alla sagra del paese o semplicemente dalla parrucchiera, ti accorgi che lì è tutto indietro di 10 anni… e che quando al baretto della frazione vicina scrivono “quest’anno novità: è arrivato lo spritz”, ti vien da sorridere come quando vai a trovare la vecchia zia zitella.
Che dire, ho scritto troppo.
Argomento dibattuto quello di Milano. Se fossi sempre rimasta al paesello, non sarei quella che sono ora
A Milano si deve tanto, almeno quanto si dà.
Credo valga, innegabilmente, per tutti. Sostenitori e detrattori.
Mi fa molto sorridere lo spritz novità dell’anno. Capisco bene cosa intendi. E comunque, secondo me, i pendolari fanno una vita piena di sacrifici ferroviari e non solo, ma riescono in qualche modo a salvare capre e cavoli. Per noi del sud, più o meno profondo, anche avere gli affetti a 1 ora di distanza, sarebbe una svolta incredibile!
per me è facile, nata e cresciuta a Milano (Milano Milano non la provincia). la famiglia è qui. le mie radici qui. ho fatto l’università all’estero ma il mio futuro lo vedo qui.
Milano non è perfetta, ma continua a migliorare e mi sentirei quasi in colpa ad andarmene. preferisco contribuire alla sua crescita che fare il cervello in fuga, o almeno provarci
mi ritengo molto fortunata a non essere nata in un posto da dove bisogna emigrare per vivere tipo il sud
lo sei, molto fortunata, ed è perfettamente ragionevole che tu voglia restare qui, se ne hai la possibilità. al posto tuo, farei altrettanto 🙂
Quando chi scrive ha la capacità di farti vivere emozioni e sensazioni che non hai mai tradotto in parole io posso solo dire grazie 🙏 è un modo per farti sentire un po’ meno solo/a
❤ ❤ ❤
Questo discorso vale per chiunque vada a lavorare in una città nella quale non è nato. Solo che a Milano ci vanno un po’tutti. Io, Milanese che lavora all’estero, torno a Milano per ritrovare i miei amici d’infanzia, i miei genitori, i miei parenti etc etc e i sentimenti che provo sono proprio gli stessi.
verissimo.
Non è difficile avere una famiglia a Milano ….basta esserci nato 😁
E comunque “nasci solo e solo andrai” canta il Liga, e vale ovunque
madonna il liga non ce la posso fare.
e comunque sì, se ci sei nato, thanks to the dick! 😀
per capire Milano bisogna viverci e io ci ho vissuto. Mi sono trovato bene ma poi ho dovuto girare per l’Italia. Però quando ci torno e come se tornassi a casa.
Le origini? Sono belle ma spesso sono noiose. Questo lo posso garantire, perché i raffronti sono sempre impietosi. Nella propria città ci vivi bene ma ricordi con nostalgia tutte le altre
vero anche questo, vero tutto.
cosa posso dire, però, io continuerei a votare per la comune! 🙂
Per comprendere bisogna aver cambiato sei città come ho fatto io, oltre quella d’origine
Questa è davvero Milano.
Tutto vero ma peggio.
Molto peggio.
dipende. per certi è meglio, molto meglio 🙂
Bellissimo articolo, bravissima. Nel bene e nel male mi ritrovo in tutto quello che hai scritto con una sola differenza, se potessi tornerei indietro. Metterei al primo posto altre priorità, la fame di realizzarci distorce la realtà in cui viviamo. La realtà è che siamo realizzati a metà o forse neanche, lontani da tutto, dai luoghi e dalle persone con cui siamo cresciuti e che ogni volta che rivediamo ci fanno capire quello che conta davvero nella vita. Continua così!
eh, è un bel dilemma.
io non mi faccio questa domanda, non mi chiedo cosa farei se tornassi indietro, perché tanto non si può. mi chiedo come procedere in avanti, e farlo al meglio, contemplando non solo le variabili di 10 anni fa, ma quelle di oggi. le possibilità presenti, le opportunità che abbiamo. provo a vedere il bicchiere pieno a metà, perché poi è anche vero che in queste vite altrove abbiamo evidentemente trovato qualcosa che mancava nel nostro punto di partenza. magari è meno di quanto ci aspettassimo e questo a volte ci delude o ci lascia perplessi, vero, ma insomma, alla fine dobbiamo provare a calzare la vita che viviamo. oppure, a cambiarla da un buon sarto 🙂
io milanese di origine e fuorisede a Trieste mi sento in famiglia e a casa a milano! che bello essere di dovunque nel mondo
beh si certo, se sei milanese ti senti in famiglia e a casa a milano, ci mancherebbe altro!
Ciao,
Siamo una coppia di pugliesi.
Siamo a Milano per le stesse ragioni che hai perfettamente descritto. È stato quasi come leggerci dentro, al punto tale da esserci commossi.
Bel pezzo davvero.
cuorissimi!
e grazie mille! ❤