Le cose e le persone cambiano. Cambiano sempre, non c’è un cazzo da fare. Bisogna capirlo, accettarlo, vederci pure l’aspetto positivo. Sarebbe preoccupante, d’altronde, se tutto restasse fermo, uguale a se stesso. Se le persone non mutassero nel tempo, se le relazioni non evolvessero (o involvessero) in un incessante impeto esistenziale. E invece, per fortuna, il tempo scorre e noi cambiamo. Il passato rincorre il futuro, oppure il futuro fugge a gambe levate da trascorsi complessi, oppure ancora tergiversa spaurito, in ascetica contemplazione del tempo che fu. Ma, in un caso o nell’altro, i punti fermi – certe volte – scarseggiano. Il senso di appartenenza pure e, se non hai l’agilità per costruirti un nuovo sistema a cui aderire, nel quale trovare un sufficiente appagamento umano, le cose non si mettono tanto bene. Per carità, c’è il lavoro, che è il più efficace (oltre che necessario) strumento di distrazione di massa dalle insoddisfazioni dell’anima (quando non è un’ulteriore causa di esaurimento). E poi c’è la famiglia di origine, che – se pure hai la fortuna di considerarla un rifugio dalle avversità della vita (privilegio non universale) – è comunque lontana, fondamentale ma non sufficiente; la famiglia sono le radici di una pianta che, per crescere, ha bisogno di sviluppare un fusto robusto, dei rami lunghi, delle foglie lussureggianti e folte, nei casi migliori persino dei fiori o dei frutti.
E a proposito di sistemi e appagamenti umani, nell’ultimo periodo ho riflettuto molto sull’amicizia, specie quella di vecchia data, perché Peppe, uno dei miei migliori amici, ha lasciato Milano. Si è trasferito con la sua zita a Bologna che, per carità, è vicina e facile da raggiungere, ma non è come vivere nella stessa città. Bisogna pure dire che Peppe per me era, ormai da 5 anni (da quando cioè aveva abdicato al sogno bucolico di vivere per sempre al Sud e si era concesso alle opportunità professionali meneghine) un avamposto di famiglia, qui, a Milano. Insomma, capite lo sbattimento.
Per fortuna, di recente ho intrapreso un costosissimo (ma utilissimo) percorso di psicoterapia, grazie al quale ho capito che non sono debole (come sovente sospetto) è solo che, più semplicemente, combatto battaglie sbagliate. La mia offensiva nostalgica verso il futuro, mossa dalla pretesa di far rivivere il passato (non si può, il passato non torna mai, questa cosa tocca mettersela in testa), per esempio è sbagliata.
Ho passeggiato a ritroso nella memoria e mi sono accorta che, per anni, mi sono incaricata di essere il collante del mio gruppo di amici e della mia famiglia (tutto ciò non corrisponde necessariamente al vero, ma è la mia auto-narrazione). Mi sono sbattuta per tenere insieme i pezzi, per proteggere i miei affetti dalla diaspora che li aveva travolti. Ho proposto trasferte, ho pianificato incontri, compleanni e capodanni, ho organizzato feste e sorprese, ho coordinato treni, aerei, alloggi, cene e gite; mi sono impegnata per raggiungere e per accogliere, trovando sempre il tempo (e i soldi) per le persone a cui volevo bene, a costo di rinunciare ad altro. Per anni sono stata l’amica che rispondeva su whatsapp a tutte le ore, che chiedeva consigli e ne dispensava, che c’era sempre anche quando non c’era. Per anni ho declinato proposte ed esperienze nuove perché GIAMMAI sacrificare una Santa Pasqua, un Santo Natale o una Santa Estate in Puglia, con gli affetti di sempre, a fare le stesse cose di sempre. A esserci, almeno per una manciata di giorni all’anno.
Mi sono, in altri termini, impegnata per perpetrare le tradizioni e i rituali che avevano accompagnato la mia crescita, per proteggerli, per conservarli indenni come una reliquia di un tempo ormai passato. L’ho fatto nel tentativo di trarne il conforto emotivo che ne avevo sempre tratto, complice il fatto che la mia giovinezza era stata molto bella (o perlomeno così l’avevo idealizzata), e che il mio presente faceva abbastanza cacare (o perlomeno così avevo deciso che doveva essere). Ma l’ho fatto anche perché mi pareva che servisse pure a loro, agli altri, ai cugini che non muovono mai il culo per venirmi a trovare a Milano, agli amici che mi chiedevano “Quando scendi?” e a quelli che ogni tanto arrivavano da angoli sparsi dell’Italia e dell’Europa, per rifugiarsi in casa mia, spogliarsi delle armature della quotidianità e sentirsi al riparo di un’amicizia che durava dall’adolescenza, edificata con il cemento armato della gioventù.

Poi però, siccome non si può pretendere di controllare la vita propria e men che meno quella altrui, è successo che le cose sono cambiate. Sono arrivati i traslochi, i matrimoni, i figli, i lutti, l’imborghesimento coatto, le priorità e le esigenze troppo diverse. Le tensioni intestine al gruppo sono emerse, Tizio ha litigato con Caio, Caio ha litigato con Sempronio, ed eravamo tutti troppo adulti e troppo lontani per imbastire atti di mediazione, per condurre – come ai vecchi tempi – processi popolari in pubblica pizzeria. E così un paio di anni fa me ne sono accorta: li ho guardati, gli amici dei viaggi e delle nottate in spiaggia, delle feste di capodanno e delle gite a Pasquetta, e ho visto chiaramente che erano diversi. E più provavo a tenerli insieme, più cambiavano, a ruota, come contagiati da un virus. Diventava una competizione di ego consolidati (nel bene e nel male), di identità troppo convinte di sé (o troppo impegnate a fingersi tali); non si parlava più di cosa ci capitava, di come si stava, di ciò che si pensava di un qualsivoglia tema di attualità. Era solo uno sfoggio di successi e di investimenti (giuro, è la prima cosa di cui parlano appena si rivedono). Era una gara a chi ce l’ha più lungo sulla base della RAL, del numero di viaggi fatti nell’anno solare, dei metri quadrati della casa in cui si vive (ma pure del quartiere), della marca dei vestiti che si indossano, della posizione che si occupa nell’organigramma aziendale. Era come se, all’improvviso, non distinguessero più che “Ehi, helloooo, siamo amici, siamo intimi, ci conosciamo da quando avevamo il monociglio e pesavamo 30 kg in più, non c’è bisogno di tutto questo”. Dimmi se sei felice, piuttosto. Dimmi cosa ti fa venire il panico, piuttosto. Facciamoci due risate in memoria dei vecchi tempi, piuttosto (d’altra parte, se non hanno mai fatto un film di Friends, per farci vedere che fine facevano Chandler, Monica, Rachel, Phoebe, Ross e Joey, una ragione ci sarà pure).
Da allora, ho deciso di godermeli, semmai, a piccole dosi e a piccoli gruppi, in modo che, quando capita, sia più facile ritrovare la complicità che non esercitiamo nella vita quotidiana. Ho smesso di organizzare riunioni internazionali, ho smesso di proporre un weekend in una bella cascina con la piscina d’estate tutti insieme, ho smesso di pensare che nella vita ci sia qualcosa, a parte l’herpes, che dura per sempre (semi-cit). Ho adattato il mio concetto di amicizia all’età che vivo (perché a quanto pare, crescendo, gli amici perdono rilievo) e ho smesso anche (ci provo se non altro) di prenderla troppo sul personale, di irrigidirmi, di competere con l’inespugnabile triade matrimonio–figli–lavoro; ho smesso, più in generale, di aspettarmi cose.
In compenso, però, ho iniziato a pensare che amare qualcuno, in senso lato, volere insomma il suo bene, significhi elaborarne il cambiamento (persino quando ci causa del dispiacere). Superare il disappunto che deriva dal fatto di crescere in maniere diverse, con valori e priorità distanti che ci rendono – a un certo punto – incompatibili. E sono sempre più persuasa del fatto che l’amicizia, proprio come l’amore, viva di fasi, più o meno lunghe. Le amicizie iniziano, durano (a volte anche decenni) e finiscono. Il più delle volte, semplicemente, si spengono sotto il fardello dell’età adulta, degli impegni familiari incrociati, dello stress professionale, del “non ho mai tempo”, “sono sempre di corsa”, “non riesco manco a cacare”. Conviene riconoscerlo, accettarlo, non farci sangue amaro. E, piuttosto, imparare a valorizzare le amicizie altre, quelle presenti, quelle persistenti, quelle nuove che si costruiscono e quelle storiche che resistono, con attenzione e con cura, proprio su un terreno anagrafico che sembra dirci: hai un lavoro, una macchina e un compagno, non ti serve altro. E questa è una menzogna. Perché, alla fine, è come dice Frecciagrossa (uno che certe volte dimostra saggezza insospettabile): “Gli amici stretti, si tengono stretti”.
Se tenerli stretti si vuole.
Amen.
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Mi pare tu mi stia simpatica, sull’affetto non so, è un po’ prestino, vediamo come procede 😉
Mi piace sicuramente quello che scrivi e condivido le tue considerazioni. Spesso ci si sbatte troppo per il desiderio che tutti vadano d’accordo e si amino, ma le persone cambiano e pure noi. C’è una selezione naturale che è impossibile arrestare, forse è meglio così! Bisogna essere disponibili a “vedere” le nuove amicizie che faticano a prendersi un posto e sicuramente dobbiamo tenerci strette quelle che hanno superato gli ostacoli e… anche l’usura del tempo. Io ne ho esperienza, pochi/poche ma buone vale sempre come motto.
A volte ci sono dei “ritorni” ma in genere avviene più in là dei tuoi anni attuali…ora tu e loro siete in pieno ciclone ….qualcuno si perde certo…. è normale ..sei stata fortunata ad “averne accesso”sino a poco tempo fa. Quando finisce il tempo del super impegno (15/20 anni la media) poi si riprendono le redini amicali o se ne fanno di nuove ma soprattutto si ha più tempo ..tempo….tempo..
Tutti.
le amicizie, quelle vere, che resistono nel tempo, bisogna tenersele strette, perché non un plus inestimabile per noi.
Il passato non torna ed è inutile piangerci sopra, tanto non cambia nulla ma si peggiora la situazione. Si deve guardare avanti tenendo presente gli errori del passato.
Avrei voluto dirti che per me è diverso forse perchè non ho mai fatto parte di un gruppo ma piuttosto di tante amicizie sparse. Mentre ti leggevo però la tua voce è diventata sempre di più la voce fuori campo che narra la mia vita. Quindi grazie per avermi fatto sentire meno sola e aver reso queste sensazioni meno assurde
L’ultimo post…lacrime, sembrava di averlo scritto in prima persona, proprio perché rappresenta il mio stato d’animo e di situazione attuale…massimo stima, se capiti da Brescia con il tuo compagno sappi che vi devo quantomeno un caffè 💪. Matteo
L’ha ribloggato su CorpInclusi.