I figli li fanno anche i criceti – Sala parto

29 giugno – Notte

Arrivo in sala parto che non sono più in me. Sono un corpo che si dilania, che si contorce, che si dimena. Sono una persona che non s’appartiene più, preda di una tortura che è insieme miracolo. 

“Fatemi l’epidurale” biascico, mentre mi posizionano sul letto. 

“Ormai è tardi, stai per partorire”, mi dice qualcuno, una donna, non so chi, non vedo niente, ho gli occhi chiusi. 

Mi stendono sul fianco sinistro, posizionano la gamba destra su una stampella, mi parlano ma io non sento più niente, non sono più niente, solo un ammasso di carne e sangue, una coscienza che si lacera nell’oscurità. 

Mi dicono di spingere e io spingo, e mentre spingo urlo, e mi dicono qualcos’altro, che però non capisco, allora urlo ancora, dicendo che devono urlare più forte di me, se no non li sento, e succede un casino, e aiutatemi, oddio, oddio, oddio.

Due donne mi tengono le mani, una a destra e l’altra a sinistra, io non le conosco, non le ho mai viste prima e non le riconoscerò mai, se mi dovesse capitare di incontrarle per strada. 

“Forza, stai andando benissimo!” mi dice quella a sinistra. 

“Spingi, così!” mi ripetono e io sento la testa di mia figlia sporgere e poi ritrarsi.

“Che succede? Perché rientra?” 

“È normale, tranquilla, ci siamo quasi!” mi dicono.

“HO PAURA!” urlo, in lacrime

“Altre due spinte ed è fuori” mi dice la donna a sinistra. 

“Non ci credo!” rispondo, con una disperazione totale, intensa, purissima.

Percepisco che sono tanti. Quattro. Cinque. Forse sei. Non lo so. Sto morendo. Io sto morendo e la mia vita non mi scorre neppure davanti agli occhi: non vedo i giri in motorino sulla litoranea, i tramonti sul lungomare, le albe sulla spiaggia con gli amici, le nottate in macchina a fumare, e ascoltare musica, e fare l’amore; non vedo i viaggi, le occupazioni, i concerti, le premiazioni, i compleanni, i capodanni, i festini universitari, le cene fuori, il buon vino, i momenti di assoluta libertà, gli stralci di successo che mi hanno dato l’illusione di essere felice in una società che erge il successo a valore supremo dell’essere. Non vedo i regali sotto l’albero di Natale da bambina, né le vasche piene di pomodori in campagna da mia zia, neppure i Blockbuster guardati con i miei cugini la domenica pomeriggio, né le pesche sciroppate che faceva mia nonna. L’ultima cosa che vedrei se aprissi gli occhi, ora, sarebbero queste luci fredde da ospedale e i volti estranei di questi sconosciuti. 

Forse mi arrendo. Forse posso farlo. Forse arriva un punto in cui è legittimo non farcela più. 

“Tesoro, sei bravissima! È quasi fatta, okay?” mi dice quella che dev’essere il capo, lo capisco dal fatto che è posizionata lì, tra le mie gambe, pronta ad accogliere mia figlia nell’istante esatto in cui la si potrà considerare venuta al mondo. 

All’improvviso mi torna in mente Gea, che è una di quelle amiche che ti conoscono e ti intuiscono da sempre, che di te sanno le luci e soprattutto le ombre, e vogliono bene a entrambe, e non ti hanno mai chiesto spiegazioni perché non ne hanno avuto bisogno, giacché a unirvi c’è una specie di sorellanza incondizionata, un legame di fiducia che sopravvive ai decenni, anche senza scriversi miliardi di puttanate su whatsapp ogni giorno. 

“È bene che una mamma capisca che deve armarsi anche lei, che non può subappaltare tutto alla bravura del personale sanitario… insomma, che in quel momento deve tirare fuori tutta la sua cazzimma” 

Tutta la mia cazzimma. 

Spingi! 

Spingo!

Poi è il turno di Raffaella, che di figli ne ha fatti due: “Abbandonati al tuo corpo, lui sa cosa fare, assecondalo”. 

Spingi! Bravissima! Ci siamo!  

“Lasciati attraversare”, mi ha detto infine Gaia. 

E io me lo ripeto mentre lascio passare mia figlia, mentre le consento di evadere dal mio corpo, e spingo per l’ultima volta, e con una fitta di dolore irreversibile sento un esserino sgusciare via dalle mie membra, agile e fluido, come una biglia che scivola su una traiettoria segnata. 

Succede così, come per magia, le mie amiche sono con me anche se non ci sono. Le donne preziose che ho incontrato nella vita mi sono accanto. Mi hanno detto cosa fare. Mi hanno stretto le mani, anche se erano mani sconosciute. 

Tutti intorno a me festeggiano, gioiscono. 

“AUGURI MAMMA!” mi dicono, mentre io a stento capisco, non riesco a credere di essere ancora viva. 

Rido e piango.

Sono sopravvissuta. Sono morta. Sono resuscitata. 

Sono nata. Sono madre. 

“Adesso tesoro continua a spingere, dobbiamo far uscire la placenta” mi dicono, e così io spingo, del resto a cosa mi sono serviti anni e anni di autoerotismo, se non per imparare a spingere quando c’è da spingere. 

Finalmente riapro gli occhi e vedo l’unico uomo dell’equipe con un paio di forbici in mano, che si guarda intorno e, a un certo punto, in assenza del padre, recide il cordone ombelicale, che è un gesto pieno di significati e simbologie che, nel nostro caso, viene compiuto da un estraneo. Peccato. Pazienza. L’importante è che io e la bambina stiamo bene. Che di tutte le opzioni che mi hanno terrorizzata per mesi, di tutti gli imprevisti che mi hanno tolto il sonno, di tutte le complicazioni possibili per le quali io e lei avremmo potuto non essere insieme in questo momento, nessuna si è realizzata. E mi sento fortunata, mi sento benedetta, mi sento grata, perché quando è toccato a me, 35 anni fa, mi sono cuccata 24 ore di prognosi riservata e una settimana in osservazione. Mia madre non ha potuto vedermi per giorni. Secondo le linee guida contemporanee, già solo questo sarebbe sufficiente a spiegare molti miei traumi originali e relativi crateri interiori. 

“Non dobbiamo mettere punti” mi dice la boss, mentre mi disinfetta e mi infila un paio di mutandoni di rete con il consueto pannolone. 

“E hai perso solo 100ml di sangue… complimenti ragazza! Hai fatto un parto da manuale!” si congratula. 

Non so che ore siano, ma mia figlia è nata da pochi minuti con un parto indotto, senza epidurale, senza episiotomia e senza lacerazioni. Attualmente è acquattata sul mio petto, sotto la coperta. É piccolissima, infreddolita, viva, unta di tutte le nostre mucillaggini biologiche. Non l’ho vista in faccia. Ho sbirciato un po’ ma tutto ciò che sono riuscita a intravedere è un cranio che pare un uovo di Pasqua.  

“Perché non piange?”, chiedo a un certo punto. 

“Perché è tranquilla… è con la sua mamma”, mi rispondono. 

Allora piango io, mi sembra ovvio. 

Ma queste lacrime non hanno nulla a che vedere con quelle delle ultime ore. 

Grazie, Bianca. 

Grazie di essere stata una socia incredibile. 

La migliore compagna di squadra possibile.

Benvenuta, bambina mia.

12 commenti Aggiungi il tuo

  1. GrungePilot ha detto:

    Wow.

  2. Tiziana ha detto:

    Bene, ora mi posso rilassare anche io

  3. metalupo ha detto:

    Di parti ne ho visti due e la sensazione quando sei lì è che proprio in quel momento siamo dannatamente uguali a un qualsiasi cavallo che scodella sul fieno.
    Bestie.
    Soprattutto che può andare tutto benissimo, ma anche malissimo.
    E ci si può fare ben poco.
    Grande Bianca.
    Bella Ste.

  4. goldie ha detto:

    piango anch’io 🙂

  5. camipepper ha detto:

    Anche io piango un po’. Ho ri-percepito anche il mio parto, di cui ho un ricordo molto annebbiato.
    Penso che le partorienti, stremate dalla fatica, sono un po’ tutte uguali, attraversano una strada molto simile e e la “comunità” di quel dolore ci avvicina e commuove.
    Auguri a Bianca per il suo primo anno!

  6. Silvia ha detto:

    Perfetto, siamo in una valle di lacrime.
    Buon primo compleanno Bianca ❤

  7. Fabiana ha detto:

    Che emozione! Mi hai riportato alla mente i miei parti e tutte quelle emozioni,dolori paure che sembrano insormontabili in quei momenti, ma tu sai descrivere in maniera fantastica.

  8. giomag59 ha detto:

    Felicitazioni e auguri! Io mi sono beccato un morso da mia moglie quando partoriva. E non potevo lamentarmi. Che bel racconto, sembrava di essere lì con te.

  9. AnnaLovesBass ha detto:

    Benvenuta Bianca (hai/avete scelto un bellissimo nome)! E sì, ho pianto anche io 🙂

  10. 321Clic ha detto:

    Non sono mai stata nella condizione psicofisicoaffettiva che mi permettesse anche solo di pensarci, a fare un figlio, e non si possono fare i conti con le sliding doors che non si aprono al momento giusto, quindi non ho la più pallida idea di come avrebbe potuto essere. Ho letto un crescendo di ansia, sofferenza ed emozioni travolgenti, che poteva succedere tutto e niente, e meno male che è andata bene. Io spero che qualcuna delle presenti, qualcuna di quelle che non hanno fatto niente per aiutarti, ti legga, si riconosca, e almeno si vergogni un po’ di quello che (non) ha fatto.
    Un abbraccio stritolante, e a presto. Aspetto sempre la presentazione ufficiale.

  11. newwhitebear ha detto:

    L’atto conclusivo è una lucida radiocronaca di quei momenti. Credo che quando si è lì si perdono tutte le cognizioni di tempo e di esistenza.
    Ottimo racconto con una bellissima conclusione.

  12. provacheseiumano ha detto:

    Molto belli e stimolanti gli spunti che ci dai con questo racconto del tuo parto, che forse non hai ancora “metabolizzato” del tutto, ed è normalissimo. Intanto, però, buon compleanno a quell’amore di piccolina che hai prodotto (la mia foto preferita resta sempre quella dormiente, abbandonata sulla tua pancia, con te che le proteggi il capo in una carezza).
    Curiosamente, anche stavolta, l’input per commentare mi viene non tanto da quello che hai scritto tu, che è la relazione intensa e accorata di come hai vissuto quest’esperienza, quanto piuttosto dai molti commenti differenti che il tuo racconto ha provocato su Fb, con alcuni dei quali mi sono trovata in sintonia, mentre con altri meno. Il che è, peraltro, ancor più normale.
    Provo a tirare qualche somma. Non per te o per le tue lettrici: ma per me, diciamo, rispetto alle reazioni che mi ha provocato la lettura (il che è sempre un bene, perché evidentemente non mi ha lasciato indifferente, visto che ci sto scrivendo un commento) sia del tuo racconto a puntate che dei commenti che ti hanno lasciato.
    Sarà anche che l’argomento è importante, appartiene all’esperienza di moltissime donne, e vale la pena e può essere utile farci una riflessione. Cercherò di ridurre al minimo necessario i racconti personali.
    Primo, direi, due considerazioni: 1) partorire è doloroso, molto doloroso; 2) partorire è rischioso. Lo è concretamente, al punto che non sempre finisce bene, perfino nel ricco Occidente del 2022.
    Questi sono due dati di fatto ineliminabili, comunque la mettiamo. Le cose stanno così e questo è quanto.
    Io partorii due volte, la prima a 32 anni e la seconda a 35. Come parti in sé furono perfetti, ed entrambi si conclusero tra risate e lacrime di gioia. Quattro ore di travaglio spontaneo il primo figlio, due la seconda. Ebbi la fortuna di avere sempre il coniuge nonché padre dei suddetti con me, anche perché i miei due pargoli ebbero la buona grazia (o la sfacciataggine, punti di vista) di presentarsi entrambi in piena notte. Parti da manuale anch’io. Tutte e due le volte il mio ginecologo era presente in ospedale, anche perché gli avevo posto questa condizione come primo punto non trattabile per assistermi, e a lui era andata bene e si era messo di turno in quei giorni. La prima volta, nonostante il mio ginecologo in reparto (mai stata più contenta di vedere qualcuno in vita mia), il travaglio fu un calvario vissuto nell’incertezza; la seconda volta, invece, fu una cosa dolorosa ma che ricordo come serena (nonostante mio marito mi dica che in certi momenti sembravo posseduta). Dove fu la differenza, allora, stante che io ero senpre la stessa e i due eventi, per mia fortuna, non presentarono problemi particolari? La mia risposta è: l’ostetrica.
    Io scelsi il parto naturale senza epidurale. Non per eroismo, invero, perché ero sempre stata favorevolissima all’uso di droghe pesanti in casi del genere e avevo sempre proclamato di non sopportare il dolore fisico (solo dopo scoprii che avevo la cosiddetta “soglia” piuttosto alta), ma per un calcolo razionale: pur essendo pronta e determinata ad assoldare un anestesista (non te lo davano con la mutua, all’epoca), indagando compresi che nell’ospedale in cui avrei partorito non erano molto pratici della faccenda, e rischiavo di fare la pioniera, il che mi parve sconsigliabile per me e per il bambino. Si parla di più di vent’anni fa. Ricordo ancora la frase disarmata e un po’ fatalista del mio ginecologo dall’altra parte della scrivania, quando ero all’ottavo mese, dopo che mi aveva visitato e aveva detto che ero dotata di un “bel bacino”, che le cose andavano bene, e che quindi tutto sembrava far prognosticare un buon parto: “Alla fine, la realtà è che si partorisce ancora come nelle caverne”, disse allargando le braccia con un sospiro un po’ sconsolato. Il che, paradossalmente, invece che farmi paura mi convinse. Sarò pazza o masochista io.
    La differenza in quello che provi, in come la vivi, nei ricordi che te ne restano, per me, la fa l’ostetrica, che è una figura fondamentale. Che è quella che da sempre, dall’inizio della civiltà umana, ti assiste nel parto: perché la civiltà nasce quando un essere umano inizia a prendersi cura di un altro, e siamo in uno snodo cruciale. L’antropologa Margaret Mead affermò che il primo segno di civiltà in una cultura era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Un femore umano rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. L’antropologa disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia. Per me è questo che rende importantissimo, al momento del parto, il ruolo dell’ostetrica: assistere una partoriente è molto più che un atto medico: è un atto di civiltà, di umanità e cultura le cui origini riposano nella notte dei tempi. Ed è molto grave non assolvere bene a questo compito: non è solo trascuratezza, ma un vero e proprio tradimento ontologico della civiltà.
    D’altra parte, – ricordiamocelo, però -, l’ostetrica ti ASSISTE, perché il parto è una cosa che fai tu, nessun altro che te: l’ostetrica alla fine ti dà un “certificato di assistenza al parto”, infatti. Si chiama così, legalmente, e c’è un motivo profondo (come è profondo il motivo alla base di tutte le espressioni giuridiche durevoli ed efficaci, che continuano e non contrastano la naturalità delle cose). Lei è lì per aiutarti e consigliarti e guidarti, ma sei tu che fai. Non parliamo del dottore, che, se tutto va come deve andare, sta in sala parto a braccia conserte, e interviene solo dopo o se necessario. Un parto, se non presenta problemi, è un evento naturale, e una madre non è una paziente da addormentare e da rendere un’inconsapevole bambola inerte sdraiata su un lettino, ma una donna che sta generando suo figlio ed è perfettamente in grado di farlo. Tu partorisci, TU generi, saresti in grado di farlo anche da sola accucciata a terra, se necessario, perché sei programmata naturalmente per questo, e gli altri sono solo contorno. Un utilissimo contorno, ci mancherebbe: anche perché quella esposta sopra è la migliore delle ipotesi, e, se qualcosa va male, la tranquilla risposta della natura, è che, darwinianamente, vorrà dire che muori. Tu e il bambino. E che andranno avanti solo i più forti e le meglio congegnate per sopravvivere. Questo è il dato naturale alla base, al di fuori di tutte le pippe religiose sulla santità del puerperio e sul dolore che sublima la donna e la rende più madre e cazzate varie. Il dato naturale, che si può correggere e migliorare fino a un certo punto, ma che tuttavia non è consigliabile contraddire completamente, è che quello che ci succede mentre partoriamo è un fatto scritto nel nostro corpo, nei nostri geni, in duecentomila anni di evoluzione. Sia ben chiaro, non vuol dire che la ritenga una cosa giusta e da lasciare così. La medicina è una stupenda invenzione e sta qui apposta per farci uscire dalla schiavitù della natura, per migliorare le nostre vite, per farci superare la mera lotta per la sopravvivenza e farci elevare al di sopra della miseria dei nostri corpi, coltivando il sublime nostro spirito e cervello eccetera eccetera. Ma, sta di fatto che noi siamo fatti di carne e sangue oltre che di spirito e sentimenti, che i nostri sentimenti sono fortemente legati alla nostra carne e al nostro sangue, che ci piaccia o no, e che – quanto più riusciamo ad accettare in noi la compresenza difficile di queste due cose tanto differenti – tanto più, forse, riusciremo a vivere la nostra umanità in modo sereno, non dico felice.
    Per questo non posso essere d’accordo con chi ti scrive, nei commenti su Facebook, che l’ideale è che a ogni donna si facesse un cesareo e sarebbe tutto risolto. Molte donne (soprattutto italiane) pensano questo, e non è che non le capisca. Ma, a parte il fatto che il cesareo è un’operazione con tutte le sue implicazioni, pensare questo significa a mio parere pensare di ridurre la donna, in un momento in cui è – per così dire – nel pieno esercizio delle sue funzioni – soggetto consapevole e attivo di un atto importantissimo che spesso ha scelto di compiere e delle cui conseguenze ha scelto di assumersi la responsabilità – a un puro OGGETTO nelle mani di qualcun altro, dimentica e impossibilitata a partecipare, a decidere, a scegliere, sottoposta alle decisioni di estranei anche quando non ce ne sarebbe bisogno. La medicalizzazione spinta del parto è un errore profondo, da questo punto di vista (sempre secondo me, s’intende). Il cesareo è una cosa benedetta e utilissima, che ha salvato miolioni di vite di mamme e di bambini, ma va fatto solo quando serve.
    Sono più d’accordo e comprendo benissimo, invece, chi ti scrive che fare l’epidurale dovrebbe essere un diritto di ogni donna che partorisce. Sono tanto d’accordo che ero decisissima a farla anch’io. Ma anche questa è una valutazione da fare con cognizione di causa, una decisione che comporta comunque una responsabilità. Di solito non succede, se l’anestesista è capace e la reazione fisica della donna è quella giusta: conosco personalmente una quantità di donne entusiaste di averlo fatto e ci posso credere benissimo, considerato che una volta la feci anch’io (ma non per un parto), che non sentii alcun dolore, e al pensiero di quanto siano atroci, invece, i dolori cui il tuo corpo ti sottopone quando partorisci. Lo credo bene che ci siano tante donne che giurano che sia il modo migliore, e do loro tutte le ragioni di questo mondo.
    Ma può succedere (e lo testimoniano anche i commenti che ti hanno lasciato su fb) che l’anestesia indotta dall’epidurale non ti faccia sentire le contrazioni e le spinte, che anestesista e ostetrica si mettano a litigare per questo, e che l’ostetrica dica all’anestesista che ti ha fatto troppo anestetico e che ora dovranno farti il cesareo mentre non serviva. Insomma, l’anestesia è una cosa ottima, ma comporta, come ogni cosa, dei rischi, anche perché diverso è il corpo di ogni donna e il modo in cui reagisce ad essa. È un trattamento medico, con tutti i suoi pro e i suoi contro: è, dunque, una scelta che va lasciata alla libera decisione della donna, perché ha delle conseguenze che vanno dritte al suo corpo e a quello del suo bambino. Per quanto tremendo, il dolore del parto ha un suo scopo, e non sarebbe sopravvissuto – purtroppo – alla selezione darwiniana se non lo avesse. Il dolore del parto ha un suo funzionamento e dei suoi ritmi, ti avverte delle contrazioni e del punto a cui sei (sempre se magari sei aiutata da qualcuno che ti sta accanto e che te lo spiega), ti fa sentire le tue reazioni, ti induce a spingere e ad espellere attivamente il bambino nella fase finale. Il dolore, purtroppo, è stato selezionato darwinianamente come la modalità più efficace per far fare al nostro corpo quello che deve: ha una durata circoscritta, infatti, a quello che deve fare e sparisce immediatamente dopo che hai partorito. Non dico che sia bello o sia giusto, dico che è una circostanza fattuale e che – nel decidere come affontarlo e che decisioni prendere a riguardo – dobbiamo tener conto di tutte le implicazioni che questo ha. In qualunque modo decidiamo.
    Torno brevemente ai miei parti.
    La prima volta fui abbandonata da una cosiddetta ostetrica che mi visitò, constatò un misero centimetro di dilatazione con le acque rotte, e, siccome eravamo in piena notte ed ero al primo parto, decise autonomamente nella sua testa che ci avrei messo un giorno almeno e se ne andò a dormire senza più presentarsi fino alla mattina. Io, nonostante fossi un’ultratrentenne laureata e scafata professionista nel lavoro – e nonostante avessi fatto il corso preparto – non mi resi conto, come una sprovveduta, di quello che succedeva. Non capii che il mio utero era partito alla grande e stava facendo benissimo il suo lavoro, che in tre ore e mezzo dall’arrivo in ospedale era pronto per consegnare il poppante, e che quelle che stavo avendo erano doglie come si deve, non prodromi, e che quindi in quel momento avevo bisogno di e DIRITTO ad avere un’ostetrica con me, oltre che di essere portata in sala travaglio e non di stare abbandonata a pensare che, se quello era solo l’inizio, cosa diavolo mi sarebbe successo dopo. “Se mi hanno messo qui – pensavo – ci sarà una ragione”. Quindi non la chiamai, non suonai nemmeno il campanello. Tenni sveglia tutto il reparto con i miei ululati e insultai a dovere mio marito, che per fortuna era con me a farmi da ostetrico, ma non chiamai e non suonai. A nessuno, del resto, venne in mente di chiamare qualcuno mentre io urlavo come un’invasata ed ero in travaglio avanzato.
    L’incompetente incivile che diceva di essere un’ostetrica ma in realtà era lì solo per rubare lo stipendio ai contribuenti danneggiando gravemente tutte le donne che le capitavano a tiro nel momento più importante della loro vita si presentò fresca e riposata alla fine del turno con la pretesa di farmi fare un tracciato, me si rese conto che non ci arrivavo a piedi perché se no lo facevo nel corridoio. Arrivammo in sala parto per un pelo e partorii con l’ostetrica del turno dopo, perché lei smontava. E col mio ginecologo, che venne chiamato allora. Non ho mai saputo né vorrei mai ricordare il nome di costei, se non per il fatto che fu un esempio lampante di cosa un’ostetrica NON dovrebbe fare. Le ostetriche non sono lì per cambiare le padelle, per fare le iniezioni in corsia o distribuire pasticche. Le ostetriche assistono le partorienti durante il travaglio e il parto, e per quello che c’è attorno al parto: sono lì solo per quello e non sono incaricate di altro, quindi è quello che dovrebbero fare, non abbandonare le partorienti che sono donne come loro, peraltro. Ma si sa, anche fare l’ostetrica è un mestiere, ci si fa il callo, le gravide sono lagnose e la notte è bello dormire anche se si è di turno, per alcune di loro: e pazienza se la maggior parte dei bambini, da che mondo è mondo, decide di nascere di notte, al cambio della luna.
    La seconda volta fu diverso. Erano le due di notte, l’ospedale era lo stesso, l’ostetrica si chiamava Gaetanella ma tutti la chiamavano Nella. Aveva occhi dolci, capelli biondi e un sorriso gentile, mi prese in consegna subito all’arrivo e mi portò in sala travaglio, non in corsia. Seguì con partecipazione tutte le fasi del parto, misurò le contrazioni, incoraggiandomi e dicendomi brava quando le affrontavo bene, e anche quando le affrontavo male. Sospirò di umana comprensione ai miei lamenti mentre mi monitorava tutto il monitorabile con un’efficienza mai vista. Mi visitò gentilmente, mi fece camminare, roteare il bacino piano roteando con me mentre mi reggeva i fianchi (che mio marito – quel deficiente – dopo anni mi confessò che si era perfino quasi eccitato alla scena, vaffanculo :))), mi fece mettere di corsa sul lettino quando all’improvviso la mia bambina – 4 kg e 50 di peso netto – decise di uscire e si incanalò così bene in posizione che io iniziai a gridare come l’esorcista e la spinsi fuori di prepotenza perché stavo morendo; la prese, le tolse delicatamente i tre giri di cordone ombelicale che aveva attorno al collo, prestò a me e lei tutte le dovute cure e poi mi consegnò al ginecologo. Fu così efficace e indolore nel praticare l’episiotomia che io esclamai felice: “Non mi avete tagliato, stavolta!” Rimase per tutto il tempo in cui rimasi lì anch’io, fece tutto quello che doveva fare con silenzio e dolcezza e poi se ne andò. E non le dissi nemmeno grazie perché ero fuori di me e allora non ci pensai, e poi non la vidi più. Non so, forse questo è anche un modo per ringraziarla ora, vent’anni dopo.
    Quello che voglio dire è che la cosa più importante è non essere lasciate sole. È essere credute, ascoltate, capite. Non abbandonate. È l’humanitas, l’umanità di chi sa comprendere il tuo dolore, la tua paura, il tuo scoraggiamento, e sa starti vicino a farti coraggio anche se non c’è molto da fare in quel momento più che dirti: “Coraggio”. Che la differenza, come in ogni cosa, la fanno le persone, sia noi che loro. Che le ostetriche non sono tutte uguali, come non lo sono le donne che partoriscono. Perché il parto è un momento cruciale della vita, una “situazione falò”, come si suol dire, che illumina vividamente cose buone e cose cattive. E, come tutte le situazioni falò e i momenti cruciali della vita, ci prende tante cose e altrettante cose ci dà e ci insegna, su di noi e sugli altri. E non ci lascia mai uguali a come ci ha trovato, e che tutto sommato è un bene, nonostante le cicatrici, da parto e non.
    Ti metto il pippone qui, così non disturba eccessivamente. Comunque scusa per l’invasione.

Parla con Vagina, Vagina risponde

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...