29 giugno 2021 – Alba
Alle 05.30 qualcuno entra in camera. Una tizia recapita un fagotto alla mia compagna di stanza. Dentro c’è sua figlia, tutta avvolta in un lenzuolino coi pupazzetti disegnati sopra.
Nel dormiveglia, stesa sul fianco destro, la osservo mentre si solleva stancamente dal letto e, senza dire una sillaba, come se procedesse secondo una liturgia collaudata, tira fuori una tetta mastodontica da offrire alla sua bambina. I suoi movimenti sono così limpidamente privi di goffaggine, eseguiti con una tale perizia, che mi appaiono innati. La scena mi commuove.
Certamente questa iper-emotività dipende dagli ormoni, che nel mio corpo si stanno comportando come una classe di quinta elementare in gita al Luna Park, nel giorno in cui i giri sulle giostre sono illimitati e gratuiti. Forse, però, dipende anche dalla tenerezza che l’immagine mi suscita: il profilo di madre disegnato dalla luce tenue dell’alba, il dondolio accennato del tronco, la rassegnazione amorevole dei suoi lineamenti. Forse dipende dal suo essere così spontaneamente materna e dal mio non esserlo affatto, o almeno non sentirmi tale, mentre mi chiedo cosa mai farò per tutto il giorno, in ospedale, insieme a una neonata.
Forse succede che per la prima volta metto a fuoco qualità come la gentilezza, la dolcezza, la capacità di prendersi cura dell’altro, e le apprezzo, e ne sento il bisogno, e in esse trovo più significato che in tutto il resto, tutto ciò che ho sempre perseguito: la corazza, l’armatura, il pelo sullo stomaco, gli artigli, le zanne. Quegli strumenti che mi servivano per farmi strada, o perlomeno non farmi schiacciare nel mondo là fuori; i pilastri delle mie sovrastrutture; l’impalcatura della mia immagine da femmina amara, una (aiutatemi a dirlo) donna-con-le-palle.
Ed è come se per la prima volta, in questo istante soltanto, accanto a questa sconosciuta che non mi ha neppure detto “Ciao, piacere”, mi si sia spalancato innanzi l’abisso di un mondo interiore vagamente desolato, di una persona fragile e inadeguata, che non sa da dove cominciare per diventare madre, nemmeno adesso che la bambina è reale.
Talmente reale che a breve me la porteranno in camera, prassi che gli eruditi del settore chiamano “rooming-in” e che serve a facilitare il “bonding” tra madri e figli, come se effettivamente il fatto che ci siano cresciuti dentro per nove mesi (otto e mezzo, nel mio caso), che ci siano usciti dalla figa (o dalla pancia) e che dal primo istante ci abbiano ciucciato i capezzoli (se tutto è andato bene), non sia sufficiente a sancire un legame di intimità che difficilmente trova paragoni.
“Hai riposato?”, mi chiede l’ostetrica che è venuta a portarmi le pasticche per la terapia tiroidea.
“Poco e niente”, rispondo.
“Tra un po’ ti portiamo la bimba”, mi dice, mentre il reparto si sveglia e, minuto dopo minuto, si riempie del pianto di decine di neonati. È come un coro di minuscole voci gracchianti che protestano contro l’ingiustizia del vivere; l’esercito dei bebè che si ribella all’abominevole sopruso inflitto da genitori narcisisti e disattenti all’ambiente: l’esistenza. Mi sembra poetico. Mi sembra insopportabile.
Una parte di me si sente in un girone infernale, anzi no, in una cornice del purgatorio dantesco (il mio peccato? Aver sempre prenotato hotel childrenfree). L’altra parte, non aspetta altro che rivedere quell’esserino nato da poche ore. E il conflitto tra questi due poli è potente. Da un lato la persona che sono sempre stata, quella che ha lentamente smesso di frequentare le amiche prolifiche, quella che ha sempre provato disagio di fronte ai bambini perché in fondo la bambina era lei, quella che al check-in in aeroporto ha sempre sperato che i minori all’imbarco non capitassero seduti vicino a lei (o, peggio ancora, dietro di lei – una volta, uno passò l’intera durata del volo a tirare calci contro lo schienale del mio sedile… evidentemente così come i cani fiutano la paura, i bambini fiutano l’ostilità). Dall’altro, c’è questo pezzo nuovo dell’identità, un immane contenitore da riempire di significati: la madre.
Cosa è successo? Come sono saltata dall’altro lato della barricata? Esiste davvero uno schieramento? Una linea che ci divide, le madri di qua, le nullipare di là, in una specie di rivalità culturale che ci pone su fronti opposti dell’esistenza, inclini spesso a diffidare di chi ha fatto una scelta diversa e a giudicarla, quella scelta, con abbondanti dosi di ferocia? Se ti riproduci sei una pancina sfigata. Se non ti riproduci sei una donna incompleta. Se hai figli non parli d’altro. Se non hai figli non puoi capire. Se rinunci alla famiglia per il lavoro, sei un’egoista. Se rinunci al lavoro per la famiglia, sei una fallita che ha tradito decenni di lotte per la parità, in favore della subordinazione economica. Praticamente, se noi donne fossimo un governo, saremmo la sinistra di Prodi che crolla per via di Mastella e consegna il Paese a Berlusconi.
Mezz’ora più tardi arriva la colazione e, subito dopo, passano a distribuire l’ibuprofene, che io rifiuto perché non ne ho bisogno, mi sento ancora un’eroina della riproduzione umana, il mio corpo è una bomba, sono L’OLTREDONNA (leggasi: sono ancora in delirio di onnipotenza).
Entrano in camera due puericultrici che dicono di trovarmi arzilla e che sono, in ragione di ciò, convinte che io sia al secondo figlio. Superato lo shock di scoprire che sono primipara, mi comunicano che sta per passare il medico a visitarmi e che, dopo la visita, mi porteranno la bimba.
“Devo dirvi che io non so niente della vostra materia”, confesso.
“Tranquilla”, dicono.
“No, davvero, io ho proprio bisogno che mi spieghiate tutto, anche come si cambia un pannolino”, insisto.
“Te lo spiegheremo” fanno loro e io ho l’impressione che non capiscano la gravità della situazione, ossia il mio livello di ignoranza: chi ha mai toccato un neonato, chi ha mai cambiato un pannolino, chi ha mai avuto a che fare con quel moncherino inquietante e mummificante del cordone ombelicale. Avessi avuto fratelli, sorelle, nipoti, fossi anche solo stata quel genere di ragazza che arrotonda le proprie finanze facendo la baby-sitter, avrei più strumenti. Invece mi sento come un profugo appena approdato sulle misteriose sponde di un continente sconosciuto.
“La bambina potrebbe essere poco reattiva oggi, e potrebbe dormire molto, ma non preoccuparti, succede spesso, è normale”
Nel frattempo, due oss piuttosto simpatici mi rifanno il letto e un’infermiera mi misura la pressione. Dice che è regolare. Dice che mi faranno l’emocromo per valutare il mio livello di ferro nel sangue e decideranno se attaccarmi una flebo o no. L’ennesima.
Resto così, in attesa.
Del medico, prima.
E della bambina, poi.
Le prime impressioni e le prime paure. Vediamo come evolvono