Durante le settimane di lockdown duro, quando tutti avevamo la sensazione di vivere dentro l’apocalisse, pensavo sempre a quanto sarebbe stato bello il giorno in cui avrei avuto di nuovo il tempo e la possibilità di fare una passeggiata. Uscire, anche solo per camminare, guardare i palazzi e i giardini, sentire l’aria sul viso e le gambe muoversi per spostarsi (non per pedalare a vuoto sulla cyclette).
Lo scorso weekend, finalmente, dopo settimane di diligente clausura, ho fatto due passi. C’era il sole, evviva, di certo fa bene all’umore, mi son detta. E invece no.
No, perché il sole inizia a essere quello estivo, quello che tempo due settimane ci toglierà il respiro sciogliendo l’asfalto, quello che ci farà pezzare da ogni singolo poro del corpo come succedeva già prima, negli anni in cui non avevamo anche una mascherina in faccia.
No, perché a ogni attraversamento pedonale ci assembriamo, procediamo con passo felpato verso estranei col volto coperto, ci scansiamo come lebbrosi, ci sorridiamo senza vederci, stiamo attenti a non farci investire da biciclette e monopattini, autobus, furgoni, scooter, tram e automobili; passiamo sul marciapiede opposto, ci guardiamo con diffidenza, sentiamo la sporcizia della città accumularsi sulla pelle dei piedi, delle mani, nei capelli; sanifichiamo; ci lamentiamo di quanto sia terribile inspirare la propria fiatella, mentre condanniamo e un po’ invidiamo quelli che se ne fottono e non la usano, sta benedetta mascherina. Additiamo quelli che l’abbassano (io lo faccio, se sono in una zona sgombra e posso tenere la distanza di sicurezza), quelli che la portano sotto il naso, la mettono in fronte (giuro, ho visto un vecchio in modalità Rambo), la scostano mentre conversano al tavolino di un bar, davanti a Spritz e olive denocciolate, mentre fumano una sigaretta, come se nulla fosse, come se in fondo fossimo solo preda di una paranoia collettiva.
No, perché ho visto bambini giocare imbavagliati, coppie giovanissime amoreggiare sulle panchine incuranti; madri e padri spingere carrozzine; vecchi conversare a distanza; beauty influencer che registravano videomessaggi sull’efficacia delle tinture per capelli fatte in casa; ragazzini che giocavano a pallone mentre da chissà quale device veniva fuori chissà quale musica trap.
No, fare due passi non mi ha messa di buon umore perché sono inciampata in sprazzi di normalità, che di normale non avevano molto. Soprattutto, non avevano la parte più bella della normalità, quella della spontaneità, della libertà, del disimpegno piacevole di vivere senza avere ogni due per tre la sensazione di sbagliare qualcosa.
In tutto ciò è quasi giugno e di questi tempi la maggior parte di noi sarebbe lì a prenotare e organizzare viaggi, soggiorni al mare o in montagna, itinerari, incontri, ritorni a casa, panzerottate e gite in barca. E, per carità, ho amici che hanno prenotato vacanze all’Elba, che avevano voli pianificati per Mykonos, che organizzano tour della Sicilia, che stanno rimpatriando dall’Inghilterra. Eppure, a me anche il mare in salsa covid sembra una prospettiva poco appetibile: si fa, non si fa, a che condizioni si fa? A quanti soldi si fa? Noi che veniamo dall’infetto nord, possiamo accedere a quali regioni? Con quali rischi? Dobbiamo fare la quarantena? Dobbiamo fare il sierologico? Dobbiamo procurarci un tampone negativo che certifichi che siamo puliti e dunque i nostri cari possono accoglierci come prima? Possiamo abbracciarci oppure dobbiamo rinunciare all’idea di farlo finché non sarà sicuro/sicurissimo che non ci passiamo nulla? E quando rivedrò mia madre, quale sarà la cosa più corretta da fare? Quale sarà la cosa più umana da fare? Un bacio glielo posso dare, oppure no? Se glielo do che rischi le faccio correre? E se non glielo do, cosa comprometto in quella comunicazione di corpi e di carni che usano gli affetti per dirsi che si vogliono bene? E quando ci tufferemo in acqua, dove la gente di norma sputa e piscia, sarà sicuro? E andare in un hotel a farsi rifare la stanza da chissà chi, ci va bene? E quei posti che già prima ci turbavano per la poca igiene, come i cessi dei treni e degli autogrill, come si concilieranno con la nostra legittima voglia di movimento e vacanza? E abitare un mondo nel quale qualsiasi forma di intimità può esistere solo al riparo dagli occhi della società, mi va bene? Le cose vanno davvero meglio, oppure è che nessuno può dire agli italiani di starsene a casa quest’anno?
Insomma, posto che quasi tutte le cose che mi davano piacere non posso più farle, non come prima, non senza farmi una marea di assilli e affrontare mille complicazioni, fratturata tra paranoia, prudenza e fatalismo, tra “Massì, ormai va tutto meglio” e “Non è vero, non ci sono notizie attendibili”, mi sono chiesta cosa posso fare e, soprattutto, cosa mi farà bene fare nei prossimi mesi. Cosa, senza stressarmi all’infinito, senza incazzarmi, senza deprimermi? Come devo convivere con questo virus senza rinunciare all’equilibrio mentale (già precario di suo) e senza diventare un’alienata?
Il dilemma è che una risposta univoca non c’è e a ognuno tocca trovare la sua. Tutti faremo come ci sentiamo, come riterremo più giusto, come le nostre specifiche esigenze, fragilità e convinzioni ci suggeriranno. Forse ci toccherà discutere di volta in volta le condizioni di qualsiasi incontro, per metterle in chiaro prima, un po’ come quando espliciti che tu sesso occasionale non protetto non lo fai. Forse ci toccherà scegliere le persone da vedere, gli spostamenti da intraprendere, i rischi da correre e per chi correrli. Forse capiremo chi davvero ci fa stare bene, e come, e perché.
Per esempio, io mica lo so se mia zia st’estate vorrà che vada a trovarla, o anche no grazie, e se fosse “anche no grazie” mica posso giudicarla, anzi la capisco, che mio zio è diabetico e operato di cuore, e d’altra parte sono due mesi che a ogni telefonata mi racconta di gente del Nord che ha infettato gente del Sud. E come la metteremo con chi non vuole più darti la mano o salutarti col bacio? Con chi non vuole mai più venire a cena a casa tua? Con chi non vuole più prendere una enjoy o salire in treno? Con chi ha paura di uscire fuori, ma anche di stare dentro? Condizionati dalle nostre bolle mediatiche e dalle paure più nascoste che fino a due mesi fa ignoravamo persino di avere, dovremo essere molto onesti e molto trasparenti, ma pure molto capaci di rispettare le reazioni altrui, di non giudicarle, di non sbeffeggiarle.
In qualche modo, questa nuova fase, questa sottospecie di normalità di compromesso, è persino più difficile dell’isolamento, che almeno si basava su un precetto univoco (statevene a casa), mentre ora la quotidianità si apre a un inventario imponderabile di opzioni, negoziazioni e suggestioni individuali e collettive. Le indicazioni ufficiali (ove comprensibili, quando non pensi che siano un titolo di Lercio), cambiano su base quotidiana, settimanale, mensile, regionale, comunale. Mentre ciascuno di noi fa i conti con le influenze che subisce (dagli amici che si testano, da quelli che disinfettano tutto, da quelli che ormai se ne fregano, da quelli che la colf l’hanno fatta tornare e quelli che no, da quelli che Immuni è cosa buona e giusta e quelli che la società della sorveglianza, da quelli che ti hanno fatto duemila videochiamate ma che ora tutto sommato non si appalesano perché scelgono di proseguire col basso profilo). Sono più i paranoici o gli incoscienti? Chi ha torto? Chi ha ragione?
E così, in questa prima settimana della nuova fase, sono andata a fare un aperitivo a casa di amici con un meraviglioso terrazzo. Siamo stati seduti a distanza, senza mascherine, come pattuito preventivamente. Abbiamo bevuto, mangiato e chiacchierato, dalle 18.30 a mezzanotte, e il tempo è volato come quando si sta bene insieme, come quando non ci si vede da troppo. Sono arrivata a casa loro a piedi e sono tornata a piedi. Ma per quelle ore trascorse in terrazza tutto è sembrato quasi normale. Piacevole e normale. In quelle ore sono stata bene.
Forse la risposta, per i prossimi mesi, almeno per me, sarà questa qui: la movida domestica. Piccoli gruppi selezionati di persone fidate e coscienziose. Bolle sociali che chiudano fuori la realtà esterna, dopo averne dibattuto per almeno un’ora e mezza. Aperitivi preparati ora dagli uni ora dagli altri.
Forse tutto quello che davvero ci serve, sono amici con belle case, e belle terrazze, o bei giardini.
Tutto vero, dubbi più che condivisibili… giardini e terrazzi sembrano anche a la cosa migliore. Amici fidati, poca brigata, vita beata..
Ho rivisto i miei genitori dopo mesi e non li ho potuti abbracciare…è tutto molto crudele, per lo meno per chi ci mette un minimo di cervello
Io, incinta al quinto mese, mi sento incommensurabilmente stronza a tentennare quando mi propongono aperitivi nel MIO giardino. Tanto che poi mio marito li annulla per farmi stare tranquilla.
E poi come le disinfetto le sedie? E il bagno? E cosa ne sarà poi di tutti quei piatti e bicchieri da lavare? Quando non puoi entrare a contatto con detersivi aggressivi e potenti disinfettanti per via della gravidanza, delegare la pulizia della casa in tempo di covid è un atto di fede.
Esattamente…niente di più niente di meno…il più (che era la normalitá) stressa che è un piacere…il meno (recente )manda in depressione…si deve cercare la sempre valida
giusta via di mezzo..quella che hai citato alla fine. Certo non sarà una guerra x carità ma un’ idea ce la siamo fatta in merito…credo.
Questo è un tempo subdolo che fa riafforare l’urgenza e la necessità dei legami forti. Evviva la movida domestica, la facevo già prima! 😉
una fase 2 veramente caotica e che non ci lascia molto soddisfatti.
Hai ragione sulle bolle sociali. Alla fine guardiamo in cagnesco chi ci viene troppo vicino
La vasta e varia umanità credo renda molto difficile, se non impossibile, gestire questo momento, sia nelle cose pratiche che in quelle psicologiche ed emotive. Credo che ognuno si attrezzi secondo le proprie capacità e possibilità, oltre che secondo il personale grado di ignoranza (e credo ci siano persone dell’alto quoziente intellettivo che abbiano una ignoranza inarrivabile, almeno quanto il proprio Q.I.). La nostra “piccola” mente non credo possa arrivare a processare e quindi gestire le innumerevoli variabili di questo tempo, così come credo non fosse già in grado di tenere a bada quelle di una globalizzazione veloce, furiosa ed entropica. Non sono certo che la parte razionale possa farcela e finisca per influenzare la parte psicologica, generando disagio fino all’ansia. Ecco che affiora il desiderio di “spazi” piccoli e quindi controllabili, con regole semplici, spazi meno ansiogeni: le “bolle” di dimensioni proporzionalmente inverse al grado di ansietà. Credo che sia proprio da questo momento che capiremo quanto siamo stati ulteriormente “mutilati” emotivamente e perchè l’uscita dal lockdown si rivelerà impegnativo. Potrà non esserci sollievo nel tornare a godere del sole, di una passeggiata, di un incontro (distanziato). Due mesi di lockdown e di pensieri focalizzati e ossessivi su quella condizione, penso abbiano modificato la nostra “confort zone” e l’abbiano portata “dentro” di noi, probabilmente molto “dentro”.
Non siamo in Svezia dove tutto è aperto mail governo dice “non ci andate”. Qui voglio credere che han riaperto con tempi e modalità che non devo pormi problemi se le rispetto. Altrimenti non si capisce mai il limite tra la guida del governo e l’estro fantasia e improvvisazione del cittadino.