Disadattati

Ieri ho sentito Peppe, che è diventato da poco più di due mesi padre di Lorenzo, e che è uno dei tanti, tra i miei amici storici, che sono transitati da Milano per qualche anno, prima di andare via. Raffaella, Deborah, Angelo, Pierpaolo, Sergio, Giuseppe. Tutti hanno vissuto a Milano. Tutti l’hanno lasciata. Quasi tutti, prima della pandemia. Chi è andato a Londra, chi a Torino, chi a Bologna. C’è anche chi è tornato giù. Cioè a Taranto.

Io invece no. Io sono qui. Sono qui perché non ho mai avuto il coraggio di andarmene, e perché mi sono riprodotta con un esemplare della specie che non gode di un lavoro “remotabile” (ma, se pure ne godesse, non abbandonerebbe Milano in quanto affetto da un incurabile fanatismo per la città in questione).

È un entusiasmo genuino, il suo, che fatico a condividere davvero e che segna una delle (tante) irriducibili differenze tra noi. La dimostrazione estrema di questa diversità si è avuta diversi anni fa quando, al rientro dalle ferie estive, arrivati a Milano in auto, a tarda sera, col buio e la pioggia, lui (che no, non è del sud) cantava allegro, mentre io piangevo, come una disadattata. Dico bene: una disadattata. Letteralmente. Posso dirlo, che lo sono? Che in una variabile porzione del mio “io” lo resterò sempre? Che è persino mio diritto esserlo, rivendicare la facoltà di traballare, come quei tavoli nelle trattorie a buon mercato, che forse non esistono più (le trattorie a buon mercato, non i tavoli), quando c’è sempre un cameriere solerte che mette un pezzo di cartone sotto la gamba claudicante e comunque il risultato non è perfettamente soddisfacente. Un po’ meglio di prima, ma non si può definire un tavolo solidissimo. Così sono io. Ho una zoppia interiore, di cui non mi vanto e non mi vergogno, una malinconia che il tempo complica invece di sciogliere, uno strappo mal cucito dentro che fa parte di me, come certi nei, il colore degli occhi, la voglia color caffé sulla chiappa sinistra.

Ecco, Peppe è uno di quelli che da Milano sono andati via, con la moglie, quando era ancora la fidanzata, o forse dovrei dire “la zita”, per connotare un po’ folcloristicamente i personaggi. Milano era troppo cara, troppo inaccessibile, troppo incasinata. Non vivono davvero a Bologna, cioè non in centro, ma in centro ci arrivano in 10 minuti d’auto, 20 di bici. Abitano nel verde. Ci sono alberi ovunque, fuori da ogni finestra dell’appartamento con doppio box auto che hanno comprato e ristrutturato avvalendosi della consulenza di un architetto. Nulla di tutto ciò sarebbe potuto accadere, a Milano. Se non trasferendosi fuori. Molto fuori. Troppo fuori per due che si erano innamorati condividendo una camera matrimoniale in un appartamento sui Navigli, insieme ad altri 5 coinquilini s’intende. 

Peppe ha la mia età. Siamo stati compagni di liceo. Abbiamo litigato un numero incalcolabile di volte e un numero incalcolabile di volte ci siamo riappacificati, consolati, consigliati, abbracciati. Insomma Peppe in questi giorni è giù. Ha portato per la prima volta la creatura nella terra natia. E come avviene a una discreta percentuale (che non coincide con la totalità, ci tengo a chiarirlo) dei genitori del sud che vivono al nord, si chiede: ha senso abitare a centinaia di chilometri da qui? Quante volte all’anno mio figlio vedrà i nonni? Come crescerà senza zii e senza cuginetti? Come gestirò l’invecchiamento dei miei genitori, a distanza? Cosa posso fare per trovare un accordo con l’azienda e ottenere un full smart-working?

Alla riga successiva di questo copione nostalgico e dolente, c’è l’ammirazione venata d’invidia, ma invidia benevola, per chi ce l’ha fatta, in un curioso capovolgimento di significato per cui ad avercela fatta non è più chi vive in un loft a Brooklyn, o chi ha un terrazzo vista Madonnina a Milano, ma chi può fare colazione la domenica mattina mangiando un cornetto (non brioche) vista mare, a Pulsano. Quando è successo che i poli si sono invertiti? Quando “farcela” ha smesso di significare andare più lontano possibile, ed è diventato tornare? 

Non è un caso che Peppe scelga me per lasciarsi andare a certi rigurgiti campanilisti. Se avesse parlato con Raffaella o con Deborah, che da Taranto sono andate via con un irrevocabile bisogno di emancipazione e non si sono mai guardate indietro, se non costrette dagli obblighi e dalle circostanze, non lo avrebbero assecondato. Io invece quel languore l’ho accolto, l’ho compreso, perché io e Peppe condividiamo da tempo immemore un amore irragionevole per la nostra città d’origine che, come tutti gli amori autentici e puerili, non conosce razionalità, calcolo, opportunità. È un sentimento ottuso di appartenenza, forse perché siamo figli unici e la nostra città ha un ruolo materno, l’enorme tetta geografica dalla quale non abbiamo mai elaborato il distacco. Non saprei. Anche se lui a Bologna “sta da Dio”. Anche se io a Milano me la cavo.

A un certo punto della conversazione, comunque, ho fatto ciò che il mio ruolo di madre domiciliata a Milano prevede e gli ho detto le cose che si dicono in questi casi: “Ma sai Peppe, tuo figlio crescerà in una città con molte più opportunità, pensa quante mostre, quanti concerti; pensa con quale agilità potrà andare in gita a Venezia o a Firenze; pensa al welfare che c’è in Emilia, pensa alla sanità Peppe. E certo tu mi dirai che l’aria in pianura padana è irrespirabile, e hai ragione, ma non è che a Taranto sia proprio salubre, a proposito, non ho capito: l’Ilva la stanno chiudendo oppure no?” 

Mentre gli racconto queste cose, nell’atto di mostrargli i vantaggi, presunti o reali, di una scelta di vita che alle soglie dei 40 anni continua a porre in discussione, non sono certa che ciò che dico abbia un senso. Non sono certa che i concerti all’Estragon (che pure sono una cosa molto gradevole) valgano più della vicinanza ai nonni.

Gli confesso che mi pongo le stesse domande per Bianca. Gli dico che è faticoso crescere i figli così, senza nessun tessuto familiare attorno che, per carità, talvolta può essere anche molto tossico, ma ciò non toglie che esista una specifica amarezza nell’essere genitori soli. Un’impronta che non si vorrebbe lasciare impressa nell’infanzia di nessun bambino, o bambina. Anche se soli-soli in fondo non lo siamo. Anche se frequentiamo persone piacevolissime con cui condividiamo abitudini e interessi. Anche se creiamo occasioni per far stare i pargoli con i coetanei. Anche se le nostre agende sono pienissime e complicatissime, e dobbiamo fissare le cose con settimane di anticipo. Anche se coi parenti facciamo le videocall su Skype. Anche se siamo abbastanza vecchi da sapere (o almeno sospettare) che nessuna scelta esistenziale sia gratuita, o indolore, o perfetta. Anche se non siamo così ingenui da ritenere che il benessere dipenda puramente dalla collocazione geografica o dalla prossimità al mare. Anche se, in fondo, sappiamo che la cosa più difficile da conquistare, nelle nostre vite adulte, è l’intimità, la familiarità, l’affidabilità. La possibilità di sapersi davvero. Il conoscersi, ma soprattutto l’esserci. Sapere che “io ci sono” e “noi ci siamo”, senza manipolazioni, senza secondi fini. E questo credo valga al di là dell’essere genitori oppure no.

“Se solo foste rimasti qua…” concludo, io che non accetto i cambiamenti della mia vita, figurarsi di quella altrui.

“Se fossimo vicini sarebbe completamente un’altra storia! Adorerei crescermi un po’ tua figlia, è una bambina stupenda”, conclude. 

Non ho nulla da obiettare, vostro onore. 

3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Andrea ha detto:

    Dopo 26 anni che vivo al nord ho smesso di rimpiangere la mia toscana. No non vivo a Milano, il lavoro mi ha portato a Verona che è più inquinata di Milano ma sicuramente più vivibile. Certo mi manca il mare e mi mancano tante persone e cose, ma alla fine ne ho trovate altre, differenti ma comunque belle (e la più importante si chiama Barbara). Vivere al nord non essendo del nord non è stato facile, e sicuramente non sono diventato un uomo del nord. Ma ormai ho imparato che alla fine quando c’è l’amore, ci sono amiche ed amici veri , tutti i posti vanno bene. La storia umana è la storia di migrazioni e quindi di allontanamento dalle proprie radici , ma le radici rimangono comunque dentro di noi, siamo noi le nostre radici.

  2. Una funambola ha detto:

    Ho riletto piu’ volte il tuo articolo.  Quella “zoppia interiore, di cui non mi vanto e non mi vergogno, una malinconia che il tempo complica invece di sciogliere, uno strappo mal cucito dentro che fa parte di me” mi fa venire il magone per l’empatia che la tua descrizione riesce a dare del nostro stato di emigrati (qualcuno direbbe “da privilegiati”, forse).
    Come si sopravvive a tutto questo? Come riusciamo a mantenere l’equilibrio, mentre siamo sballottate da pulsioni e sentimenti opposti, tra il desiderio di una vita migliore per la prole e un senso di appartenenza che non senti piu’?

    Se poi i chilometri a separarti dalle due radici sono troppi, per cui ogni volta devi prendere sempre un-fottutissimo-aereo (che mica puoi caricare tutto in macchina e partire last minute per un carrambata, eh no!), per cui la lingua che parli (e pure male, facendoti sentire stupida a volte) non e’ la stessa che usi per pensare, per cui usi e costumi diversi non riesci ancora a cucirteli addosso, come si fa?

    Io ancora non l’ho scoperto! E temo passerrano anni prima di trovare il coraggio per farlo, passero’ ancora del tempo a camminare in punta di piedi, su quella linea immaginaria, con le braccia spalancate per stabilizzare il baricentro interiore.

Parla con Vagina, Vagina risponde